racconti

Sul sentiero

sul sentiero

Partirono baldanzosi, quella volta, i sette.
Il tempo era buono. Il sole invernale, discreto e opaco, era una valida promessa di luce e calore, sufficiente di sicuro per portarli in giro parecchie ore.

E. partì per prima: era la capogruppo.
Non perché fosse la più vecchia, ma perché quelle erano le sue montagne.
Agile e svelta si muoveva su e giù dagli avvallamenti come se il terreno si modellasse intorno a lei.

Chi le stava dietro divertita era la più piccola: V.
V. era davvero giovane ma certo per lei non era un limite ogni volta che anticipava una salita o si rotolava lungo un declivio, accelerando il suo passo corto e rapido per stare dietro ad E.

L’unico che V. seguiva con lo stesso interesse era M. – il compagno di E.
Ogni scusa era buona per rotolarglisi addosso o tirarlo a destra e a sinistra e lui, con insolita pazienza, la assecondava quasi sempre; ora aspettandola, ora sollecitandola teneramente a proseguire il cammino con una traiettoria che avesse un senso.

Dietro di loro Pa e Po, coppia da sempre.
Si muovevano con sicurezza e costanza, indipendenti tra loro ma senza mai perdersi di vista.
Ogni passo aveva il senso dell’esperienza di chi ha imparato a misurarsi e a conoscere le proprie capacità e limiti.

Chiudevano la fila D. ed F.
F. era davvero l’anello debole del gruppo e tutti lo sapevano, lei compresa.
Certo, in altre circostanze era stata preziosa tanto quanto gli altri, ma spostarsi in alta quota era per lei un vecchio problema.

D. era il suo compagno ma la curiosità innata e la voglia di esplorare il territorio lo spingevano talvolta lontano da lei. Così F. faceva del suo meglio per non restare indietro.

Non è che fosse debole o malata. Era solo che non si sentiva a suo agio con l’altezza: fuori dai fitti boschi della valle si trovava spiacevolmente scoperta ed esposta. Ogni passo che non fosse in piano si trasformava in una scommessa di equilibrio e vertigine.

Non l’aveva mai nascosto né negato; nel gruppo ci si diceva tutto e comunque era stato subito evidente.

Per questo, quel giorno, sapevano tutti che la passeggiata sarebbe stata breve e facile; giusto un po’ più in alto del solito per dare un’annusata all’aria fresca delle cime.

Il primo tratto lo percorsero senza grosse difficoltà.
F. era spesso l’ultima della fila ma la mattina era tiepida e piacevole e i sette non avevano fretta.
Si fermavano di quando in quando a giocare con i cumuli di neve scintillanti al sole, a osservare i tronchi strappati alla terra dal vento, a scivolare lungo i tratti in pendenza.

C’era intorno una musica fatta di aria fredda, profumo di pini e neve pulita.

Raggiunsero i Casoni di Valfredda che era metà giornata.
Il legno scuro ed umido dei vecchi fienili silenti li osservava tollerante mentre gli sfilavano davanti.
Le ampie curve del sentiero li accompagnavano in un valzer lento e benigno.

Po guardò in su, verso le vette.
E. per un istante pensò che non era il caso di andare oltre, ma il sole era ancora alto e il tragitto, anche allungato di un tratto, avrebbe richiesto poco tempo di più.

In estate.

L’ultima volta che E. si era avventurata sulla malga la terra era coperta dall’erba turgida di primavera e la neve si era ritirata, timida, più in alto.

Quando arrivarono a metà del percorso avevano il ghiaccio fino alle ginocchia.
Il sentiero si era stretto sempre di più fino a scomparire del tutto sul fianco della montagna.
Perfino la piccola V. stava spesso esitando, guardando ad ogni passo E., come a chiederle come uscire da lì.
Ma per lei era bastato un cenno, l’indicazione su dove poggiarsi per salire e V. agile e un po’ incosciente, aveva superato il crinale senza troppe difficoltà

F. era immobile.

Paralizzata forse è l’espressione che calza meglio.
Rigida su quei piedi pesanti, appoggiati sul terreno inconsistente, si sentiva scivolare verso il basso. Anche da ferma. Tutto intorno era instabile ed indifferente al suo terrore.
Temeva per sé e per il gruppo, in un’unica vertigine di paura e senso di colpa.

Passarono pochi secondi, che per F. potevano essere lunghi anni.
I suoi occhi seguivano la piccola V. mentre, con il respiro fermo in gola, sperava solo di vederla arrivare in salvo dall’altra parte. Con lei c’erano gli altri e questo era l’unico sollievo.

Quando V. ebbe superato il passo più difficile E. si voltò e lasciò la testa del gruppo.
Intorno alla piccola si fecero M., Pa e Po. I primi a sorreggerla e guidarla, l’ultimo ad aprire la pista.

D. non si era staccato da F.

Neanche per un istante F. pensò di fermarsi, perché davanti c’era V., che era la sua carne.
Perché la via aveva una sola direzione.
Perché il gruppo avanzava, e lei era il gruppo.
Ma soprattutto perché non era la prima volta che qualcosa la terrorizzava, e questo non era mai stato un motivo per mollare.

Certo, come fare era un’altra faccenda.
Ogni volta che provava a staccarsi dalla parete lo sforzo assorbiva ogni sua energia ed era impossibile compiere anche solo un passo. Ad ogni movimento la montagna diventava fluida e si muoveva sotto di lei, togliendole la percezione del terreno.

Fu allora che E. scivolò al suo fianco e si mise tra lei ed il vuoto.
F. la fissò in volto, per non vedere più la montagna attorno.
La neve accendeva di luce i suoi occhi e, inspiegabilmente, E. sorrideva.

E. chiese a D. di proseguire e iniziò a parlarle.
Non di dove mettere i piedi, non di dove aggrapparsi alla roccia.
Le parlò di quando era piccola, le parlò a lungo. E continuava a sorridere.

Quando smise di parlare, F. stava già avanzando da un pezzo, aggrappandosi non al coraggio ma alla fiducia in E.

Gli altri avevano già scavallato il passo e le aspettavano sul pianoro. Loro arrivarono insieme.
Durante quel lungo passaggio lungo la parete E. non la toccò mai. La guidò soltanto, cedendole istruzioni e forza, affinché lei potesse farcela da sola.

F. tremava ma non si fermò, non dubitò di arrivare. E non guardò indietro mai.

Quando furono in un luogo sicuro, sull’alto di quelle vette, trovarono il silenzio, il bianco pulito della pace ed il morso tenace di un legame vero.

Là dove erano passati rimanevano solo brevi impronte sulla neve, destinate a durare meno del sorgere di un sole.

Ma la strada non era finita.
Ci era voluto più del tempo previsto per superare quel punto, ed il sole iniziava a calare velocemente.
Non si potevano fermare.

E. riprese la testa del gruppo, D. chiuse la coda, dietro ad F. mentre M. fu davanti a lei.
Il suo modo di aiutarla era diverso da quello di E.
M. camminava davanti a lei e si girava ad ogni passo per controllare se poggiasse sui migliori punti del terreno. Quando il sentiero si faceva più ripido la afferrava, tirandola su o giù a seconda dell’inclinazione del suolo.
Nei tratti più pianeggianti, che sollecitavano il comparire della stanchezza, non smetteva di prenderla in giro, per spronarla ad andare avanti.

Pa e Po aprivano la strada, sceglievano con cura il sentiero e segnalando le buche nella neve.

D. era sempre dietro ad F. – un occhio al mondo ed uno fisso su di lei.

Altri scesero e salirono tra i picchi e la piana di Ai Lach, dove il vento non attende la notte per ululare più forte.
Le orme delle loro zampe furono presto cancellate dal vento e da neve nuova.

Ma il nodo che il branco dei sette strinse in quel giorno di chiaro inverno, durò a lungo.
Qualcuno dice per sempre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.