racconti

La busta

Signorina Maria, c’è la sua busta.

Antonio aveva sempre avuto una cotta per lei. Che poi, cotta… durava da almeno 8 anni; da quando lo avevano trasferito dalla Sicilia in Veneto.
Almeno c’è il mare“, aveva pensato all’inizio, ma poi aveva visto lei.
E da quel momento non gli era mai più passato per la testa di aver fatto un cattivo affare.

Maria era indaffarata dietro al banco. Le nove del mattino erano l’orario più denso di chiacchiere e clienti.

Diede il resto in monetine ad una signora un po’ troppo ingioiellata e si voltò verso Antonio, ancora a cavallo della sua bicicletta.

Così incorniciata dalla porta d’ingresso della pasticceria, con la luce chiara di giugno negli occhi, sembrava ritagliata da un ritratto ad acquerello.

Antonio estrasse una busta appena spiegazzata dalla morbida borsa di cuoio ben ancorata alla bici.
Gliel’ho portata, sventolandola appena, e accompagnandola con un sorriso un po’ troppo largo.

Maria sorrise in un modo più piccolo e frettoloso.
Gli fece cenno con l’indice affusolato e bianco e mimò con le labbra poche parole.

Antonio annuì. “Lasciala nella cassetta” ripetè a voce alta e meccanicamente.

Ma avevo pensato…

Maria si era già voltata per servire un caffè fumante al dottor Nicola, il medico del paese.

Antonio tenne nei polmoni un sospiro e fece dietro front.

“Lasciala nella cassetta”, ripetè scandendo ogni sillaba mentre faceva scivolare la busta nella nicchia d’alluminio.

Non si era mai chiesto da chi arrivassero quelle lettere che, senza preavviso, portavano il nome della sua Maria.

Non avevano mittente, nè cadenza fissa.
Ma avevano sempre la stessa busta.

Ora, per la prima volta, gli venne in mente di dare una sbirciatina.
Fu un momento solo perché poi, quasi offeso con se stesso, rimise le mani sul manubrio della bici da postino e ripartì, percorrendo l’acciottolato largo della calle.

Maria stava sistemando le paste nella vetrina e sorrideva ai biscotti di frolla.
Oggi avrebbe dovuto resistere almeno fino all’ora di pranzo, quando Lucia le avrebbe dato il cambio.

A volte passavano ore prima che si spingesse fino alla cassetta.
Poche volte resistette per un paio di giorni.
In un paio di occasioni ci andò dopo due minuti, ancora con il grembiule della pasticceria indosso.

Apriva le buste con le dita profumate di vaniglia e poi leggeva quelle righe nere tutte d’un fiato, con la schiena appoggiata al muro.

Più spesso si infilava la busta in tasca e scivolava dritta filata a casa.

Quei minuti, quelle ore, quei giorni erano i più belli.
Procrastinare quell’attesa era qualcosa di simile al dolore, un malessere pungente e meraviglioso che la faceva sorridere, senza accorgersene.
E perfino arrossire, a volte.

Alcuni giorni l’impazienza rovinava tutto, o forse era l’insicurezza.
Magari il meteo. Ma quando resisteva se ne compiaceva.

Ogni busta la rendeva felice, eppure durava poco.
Un paio di giorni di pace e tranquillità e poi di nuovo un marasma di campanelli tintinnanti nella testa.

Lei stessa non avrebbe saputo dire quale parte di quel treno di emozioni fosse la sua preferita. Probabilmente non avrebbero potuto esistere l’una senza l’altra.

Di sicuro era un vizio.
E, come tutti i vizi, non avrebbe mai voluto smettere.

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