racconti

La porta

Un uomo, un regalo al giorno, una donna.

Davvero ci provarono un milione di volte, almeno.
Ma lui continuava a tornare.

E si infastidiva tantissimo se qualcuno lo interrompeva in quel suo metodico tragitto dal portone di ingresso, al vano scala, fin sul pianerottolo esterno.

A volte prendeva l’ascensore, quello sgangherato e piccolo, con le due porte che si aprono ad anta.
Altre volte sceglieva di fare le due rampe di scale smozzicate che lo separavano dalla sua destinazione.

Curvo. Lento.

Il balcone in pendenza lo aspettava senza un fiato.
Era storto verso il basso. Sì insomma, verso il centro del cortile interno.

Sarà stato quello, l’altezza, l’incombere delle mille finestre che stavano a guardarlo come occhi tutte le volte… eppure ad ogni passo gli prendeva quella brutta vertigine.

La conosceva come conosceva l’artrite al risveglio di ogni mattina di pioggia. Era un fastidio annunciato e, per questo, sopportabile.

Comunque bastavano pochi passi per arrivare alla porta.

Lo smalto era tenuto in ordine ma il legno vecchio buttava fuori sempre quell’odore di umido che non lascia mai certe case di Budapest.
Lui non si guardava nemmeno attorno, infilava la mano lentigginosa nel giubbotto e tirava fuori qualcosa, che poggiava accanto agli stipiti smeraldo, al bordo dello zerbino.

Una volta era un giornale arrotolato a cilindro e un po’ spiegazzato, altre una bottiglia di latte fresco. Altre volte (poche per la verità), un fiore.

Certi condòmini, incuriositi, provarono a chiedere, a indagare.
Qualcuno risalì ad una donna che abitava lì parecchi anni addietro. Pare fosse un’artista. Una mezza matta, ridacchiano.

Un giorno il signor Franz, del terzo piano, ebbe la buona volontà di provare a cercare quella donna. Scoprì che era ancora viva e abitava da qualche parte nella città nuova.
Così lo attese nel vano scala e con un misto di orgoglio e soddisfazione glielo comunicò. Si offrì anche di accompagnarcelo, una volta, in macchina.

Se il signor Franz si aspettava riconoscenza ottenne invece una valanga di parolacce, pure un po’ vintage, ma comprensibilissime.
E, dopo una paio di minuti buoni di gesti eloquenti e invettive, si rassegnò, scivolò contrito da una parte e lo fece passare.

Lui scrollò ancora un paio di volte il capo, buio in volto. Depositò sullo zerbino una saponetta allo zenzero, tornò indietro barcollando nella sua vertigine e se ne andò. Tornò il giorno dopo, naturalmente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.