racconti

Dissonante

Azzurrina, la luce della tarda mattinata si disegnava, a righe parallele, sul suo volto, illuminando il verde di un occhio.
L’altro, in ombra, aveva riflessi dorati e colori della terra.

Col braccio destro piegato dietro alla testa e i capelli scuri, in disordine tutto attorno, sembrava uscita dalla penna di un poeta decadente.

Tra le dita un tabacco biondo, stretto in una cartina giallognola e spiegazzata, lasciava salire una piccola colonna di fumo grigio bianco, che si avvolgeva e allargava in piccole spirali voluttuose, tonde come il profilo dei suoi fianchi.

Era lì che giocava, la luce. Sulla sua pelle nuda e bianca.
Raccogliendosi in ombre mobili e capricciose.

“Che puzza, quella roba”, disse lui depositandole un bacio piccolo e lento sul ventre.

Lei sollevò appena il collo, con un gesto tra lo sforzo e la noia.
Alcune ciocche scivolarono giù dalla spalla curva.

“Sì. Anche io non la sopporto”…

Lui sollevò lo sguardo sul suo viso.
“Ma che diavolo…”, cercando di capire se lo stesse prendendo in giro. Non sarebbe stata una novità.

“Dico sul serio”, lo prevenne lei senza guardarlo.
“Prima o poi smetto” tirando una boccata di fumo e lasciando ricadere il braccio dietro la testa.

“Poi. Suppongo”. Fece lui girando gli occhi intorno, sulla stanza piena di oggetti.
“Probabilmente lo farai quando butterai la metà di queste cose, giusto?”

Questa volta lei sollevò la schiena e aprì del tutto gli occhi.
“Perché dovrei buttare le mie cose?”

Lui si mise a sedere, spostandole la gamba per farsi un poco di spazio.

“Perché non le usi. Non ti servono!… Per esempio”.

Lei si guardò attorno con attenzione, vedendo cose che dava per scontate sempre e ritrovandole in un istante, come un vecchio amico girato un angolo.

“Il fatto che non io le usi non vuol dire che non mi servano”, alzandosi con un movimento fluido.
I piedi nudi scavalcarono il portacenere, una bottiglia di vino aperta e atterrarono sul tappeto africano.

La luce, questa volta, fasciava il lato destro del suo corpo, in una pennellata lunga e verticale.

“So che non ti piace, non devi ricordarmelo tutte le volte” disse sfiorando una pila di fogli scritti, in alto ad un comò di legno scuro.

“Non è questione di piacere” lui si stava rivestendo.

“Niente qui è quello che dovrebbe essere. Insomma… abbiamo appena fatto l’amore in una vasca da bagno”!

“E che problema c’è…” sorrise lei senza guardarlo.

“Il problema è che quello è il tuo divano!” spazientito.

“A me sembrava ci stessi comodo”, girando il collo come farebbe una giraffa che guarda dietro di sè. “Non è questo a cui servono i divani?”

Riattraversò la stanza dirigendosi verso la vasca da bagno, dove lui, seduto, armeggiava con i calzini.

La sfiorò con l’indice, quasi accarezzandola in un gesto di rassicurazione.
“Posso attaccarti qui un cartellino con scritto DIVANO” e – girandogli la schiena – “così potrai riconoscerlo”.

Di nuovo.
Lei si prendeva gioco di lui. La discussione sarebbe finita male.
Di nuovo.

Lui aprì la bocca e prese fiato come per infilare un treno di parole lunghe e di grande effetto.

“Guarda, no.” Spegnendo ciò che restava della sigaretta nel portacenere a terra e lasciandosi scivolare sulle spalle uno scialle rosso scuro.
“Perdonami, ma non mi servono le tue categorie per capire le cose, nè per decidere dove fare l’amore”.

Lui era già in piedi, riprendendo il soprabito, appeso ad una stampa di Escher, ma liberandolo prima da una calza di seta.

“Il casino che hai qui è lo stesso che c’è nella tua testa. È impossibile prevedere dove sono le cose così come quello che ti passa per il cervello”.

Silenzio. Lei attese una manciata di secondi, sperando che a lui fosse bastato. Ma no, attendeva una risposta, in piedi, con il soprabito nella destra e la calza di seta nella sinistra.

“Ce l’ho, sai. L’altra”.
Disse lei voltandosi nella sua direzione e indicando la calza.

Lui scrollò la testa e infilò la porta richiudendola alle sue spalle.

Lei sbuffò e tornò alla finestra, guardando, senza vedere, le persone che sfilavano in entrambe le direzioni, sul marciapiede grigio.
Era stata odiosa. Forse. Ma era stanca di sentirsi ripetere quanto fosse sbagliata.

“Dissonante” le aveva detto. “Sei dissonante come questa canzone”.
Forse aveva ragione. Era così brutto?
A lei quella canzone piaceva.

Ci aveva pensato e ripensato. Il problema non era neanche capirla.
Mangiamo un sacco di cose senza sapere come diavolo si faccia a cucinarle. Però ci piacciono lo stesso.

Il problema era prevederla.

Senza gli stessi schemi non era possibile sapere in anticipo cosa avrebbe pensato, fatto, detto. Provato.

E questo alle persone non piace. Non solo a lui. Era così da sempre.

Insomma. Vuoi sapere se stai per mettere in bocca zucca o tofu, pesce o pancetta. Vuoi sapere quello che ti aspetta.

Con lei non si poteva. E questo mandava parecchi fuori di testa.
Non che a lei piacesse, ma negli anni aveva imparato ad accettarlo.

Ci aveva messo un po’ di più a restarci dentro quando gli altri le piantavano paletti intorno. A volte era più facile adattarsi alle gabbiette che costruivano. Scegliersi un nome, un comportamento logico. La razza di un bell’uccellino canoro.

Dopo un po’, però, doveva romperla, quella gabbia. Così andava peggio perché, cattiva, avevi anche fatto scappare l’uccellino.

Meglio restare al freddo, su un ramo in alto.
Sai, così sembra un po’ più normale.
Un uccello senza nome che canta una melodia dissonante.

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