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Trine al vento

Trine al vento

Era perfino più bello, quando si bagnava di pioggia, che le gocce fredde di cielo gli scivolavano sulle paiettes come lacrime su una maschera di cera.

Lo aveva appeso li di notte, tanto che la gente del quartiere se l’era trovato al mattino, e ancora si chiedevano come avesse fatto ad arrivarci, lei cosi piccina, fin lassù.

Qualcuno aveva bussato alla porta del suo appartamento, quella con le persiane poggiate sul marciapiede, e aveva chiesto di un tailleur, una giacca su misura, magari di quel colore lì. Sa… per la cresima di mia nipote.
Lei li aveva guardati con tanto d’occhi. Non aveva neanche risposto.
Perché la gente è disposta a ritenere ogni cosa normale, se serve. Se serve a loro.


Ma ci son cose che mica servono a tutti e che si guadagnano onorevolmente diritti parziali di esistere.
È che loro vedevano un vestito. Non è che si può dare torto alla gente per quel che vede.
Lei lo spiava dalla striscia di luce che la tenda di macramé lasciava, scostandosi dalla finestra.

E vedeva luci miopi di tram alle 2 in ogni baluginio delle paiettes. Rotaie sonanti di echi bagnati.
Note di violino stridenti impigliate nella sottogonna, boiserie mogano, erbe e amaro sulla lingua, taffetà e ruvido di barba e pioggia. Fumo stantìo. Silenzio. Buio.


Non era mai arrivata, la mattina.
Chiusa li dentro, era rimasta. Lei e tutto il resto in poco più di due metri di stoffa.


Perché il problema non è quando una cosa finisce. È quando niente più niente ricomincia.

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