racconti

Fa minore

“Boulevard of broken dreams”.

Suonava sempre questa quando, alle 2 in punto del pomeriggio, lei entrava nel salottino un po’ polveroso al secondo piano.

La luce era sempre azzurra, come se – lì – fosse sempre mattina.
Forse era per il marmo bianco che assorbiva e dilatava la luce facendola ribalzare tra i marmi della piazzetta e poi ripiombare in casa, diritta sulle sue mani.

Lui stava sempre lì, nella stessa posizione. Una tazza di caffè appena fatto sul tavolino di cortesia di fine 900 e una lama di luce sul legno lucido del pianoforte di legno scuro.

Iniziava dal pre-ritornello e poi seguitava col ritornello distorto.

“Lei entra dopo il secondo ritornello”, lo sa, vero signorina?
Senza alzare gli occhi dai tasti bianchi e neri.

A volte lei iniziava a cantare mentre si stava ancora togliendo cappotto e sciarpa, tutti insieme, appoggiandoli sullo schienale della poltrona verde.

Le prime strofe erano sempre un po’ metalliche ma poi la sua voce si scaldava e …

“I’m walking down the line
that divides me somewhere in my mind
on the borderline
of the edge, and where I walk alone…”

Questo era dannatamente morbido, o graffiante.
A seconda di come era andata la giornata. Il pianoforte poi iniziava a salire.

Certi giorni lei sospettava che lui non la sentisse nemmeno, la sua voce.
Ma bastava un piccolo ritardo o l’accendo sulla vocale sbagliata e lui si fermava, come se un corvo gli avesse beccato un orecchio.

E ricominciava dal verso prima.

Il negozio sotto cambiò due volte proprietario: prima venne una boutique di abbigliamento che non battè più di due scontrini. Poi una deliziosa signora con la sua boulangerie. Con lei le lezioni profumavano sempre di pane caldo, soprattutto in primavera, quando lasciavano la finestra aperta.

I loro appuntamenti andarono avanti, regolarmente, per un paio d’anni. Diventò anche bravina. Niente di eccezionale.

Lasciò a malincuore quell’abitudine, ma il suo ufficio si era trasferito e avrebbe dovuto attraversare Parigi ogni martedì.

L’ultimo pomeriggio di lezione gli aveva fatti quella domanda che si era tenuta per due anni. “Perché iniziamo sempre così?”.

Lui aveva azato la testa, guardandola un po’ stupito.
Forse non ci aveva mai pensato. O forse era così ovvio e lei non lo vedeva.

“Perchè funziona”. Aveva improvvisato una risposta a caso?
Aveva risposto, comunque, e poi era tornato ad abbassare la testa sulla lunga tastiera di ebano e avorio. E aveva ripreso a suonare.

E in effetti… funzionava.
Quella stanza, le sue dita sui tasti, l’odore del pane dalla finestra, la luce azzurra anche se era pomeriggio e l’apertura in fa minore. Funzionava.

Forse, a volte, basta così.

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