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Vigna

vigna francesca bruno copywriter milano
vigna francesca bruno copywriter milano

Quella notte fece freddo, un freddo da gelare le ossa.
E quella notte fece caldo, così caldo che la pelle ti si squagliava addosso.
Era come sbattere con la faccia e con tutto il corpo contro un muro, e poi contro un altro. E rimbalzarci addosso. E non finire mai.
Il tempo se n’era andato e l’unica cosa che riuscivo a pensare era ” come sono piccola” e “che male”.

Quando senti così tanto male non ti ricordi più come si sta senza dolore e ti sembra che non possa finire mai.
Ma poi finisce. A volte così lentamente che non te ne accorgi. E tu pensi di sentir male ancora e invece il dolore non c’è più, e quello che senti è solo la paura che lui ritorni.

Ma quella notte lì c’era davvero.
E lo sentirono tutti.

Cominciò come una luce lontana, rossa, incostante.
La vidi solo quando arrivarono le voci.
Quando aprii gli occhi, confusi dal sonno, quel bagliore opaco tremolava sugli scuri di legno della finestra piccola, ritagliata nel muro spesso per nasconderci dal freddo. Ma non era dal freddo che dovevamo nasconderci.

Gli uomini sapevano cosa si doveva fare e lo fecero bene, suppongo. Non me lo chiesi mai fino in fondo.
Le urla arrivarono dal corridoio e da lontano, giù ai silos.
I cavalli nitrirono e io non capivo, eppure sapevo.

Scesi dal letto e passai i successivi tre minuti a decidere che stivali infilare.
Curioso come, in certe circostanze, diamo importanza a cose assurde, come se ci volessimo aggrappare a qualche priorità meno scomoda.
La mia scelta ricadde sugli stivali di gomma neri, perché erano già sporchi di terra. Un insolito abbinamento con la camicia da notte bianca.
Nessuno mi vide, ovviamente. E se lo fecero non staccarono gli occhi dalla mia faccia (dovevo avere un’espressione insolita).
Dispiace un po’, a volte, non potersi guardare da fuori, perché quello che vedono gli altri in te è sempre mischiato a quel che c’è in loro: angoscia, paura, confusione, pietà.

Dopo le urla e la luce venne l’odore.
Mi salì nel naso a tradimento, appena fui arrivata davanti alla porta del pianterreno. La trovai già spalancata e insieme all’aria gelida mi travolse la puzza di bruciato.
Ho detto puzza forse perché l’ho odiata e la odio ancora, ma in realtà era un odore buono, di legna e clorofilla, di rugiada e vento. Un odore aromatico, non dolce perché sui tralci i grappoli, a gennaio, non ci sono ancora.
Sui tralci i grappoli, quell’anno, non ci furono neanche ad agosto. E nemmeno l’agosto dell’anno dopo.

Quando arrivai in cortile (e giuro che non ho idea di come ci arrivai), ognuno era al suo posto, o ci stava andando, di corsa.
Tutti, uomini e donne, portavano secchi colmi d’acqua, pale, rastrelli.
I pigiami uscivano da sotto le giacche pesanti, nemmeno allacciate.
Alzai gli occhi sulla cima dei filari e vidi nuvole di fumo grigio che si sollevavano lente: il respiro faticoso di un moribondo.
Mia madre gridava ordini sensati ma la sua voce aveva un che di soffocato, come se la gola si stringesse ad ogni passaggio dell’aria.
Papà piangeva, seduto in un angolo accanto alla stalla, mentre Antonio – il fattore – gli teneva una mano sulla spalla e lo carezzava piano.
Tutto avveniva ad un ritmo inumano: il levarsi delle fiamme, il loro dividersi in rami che circondavano e inghiottivano i filari.

Lo vidi con la coda dell’occhio e, probabilmente, lo notai perché si muoveva ad una velocità diversa da quella degli altri.
Il nonno usciva dal capanno con una carriola vuota, e con un passo lento, meccanico, quasi ipnotico, si dirigeva nel mezzo della vigna.
Il suo volto si colorò per un istante di indaco e arancione, prima che il fumo e la notte lo avvolgessero.

Io ricordo solo il dolore fisico.
Saliva dal centro del petto e si ramificava ovunque nella carne, tagliandola.
Non capivo come fosse possibile sentire una cosa così e restare vivi, anzi, a dirla tutta mi aspettavo di crollare morta da un momento all’altro.
Non successe.
Dopo qualche tempo, che passai correndo a destra e a sinistra nascondendo il mio terrore nella fatica, rividi il nonno.
Lo riconobbi dalla carriola, perché quando venne fuori dalla vigna era coperto dal nero della fuliggine.
Si infilò nella stalla, sorpassando con lo stesso passo meccanico la fila di chi, arresosi, era rimasto in piedi a guardare il rogo.

Quando venne il giorno il fuoco aveva già finito il suo pasto. Piccole colonne di fumo si alzavano qua e là. Le colline erano nere. Morte.
Pensai: “fine”.
Mi sembrava di non esistere più. Mangiata dal fuoco e lasciata nera, secca.
Camminai fino alla stalla. L’odore delle bestie era familiare e confortante. Trascinai gli stivali nel fango appiccicoso fin dentro, sulla paglia.
Abituàti gli occhi alla penombra li fissai sul nonno: stava chino sulla carriola, stanco.
Eppure non mi era mai sembrato più forte.
Seduto su una piccola botte, piegato sulla carriola colma di tralci e con lo sguardo concentrato su di essi, muoveva il coltellino su e giù intorno alla corteccia sottile, scoprendo l’anima verde e viva di ogni ramo, pulendo con le mani ogni radice dalla fuliggine, dal fango, dalla terra.

Mi accostai, le braccia pesanti lungo il corpo. Guardai le radici, poi lui. Non dissi niente.
Non mi guardò ma disse: “mille volte vedrai le cose bruciarti intorno, bambèn”.
Sentii mancarmi il fiato e la faccia bagnarsi di lacrime, le prime.
Non era abbastanza?
Alzò il mento sporco e mi fissò dritto sul naso.
“Tieni gli occhi fissi sulla cosa più importante, se sei convinta che sia quella buona”. Tornò a lavorare sulle radici.
“E salva quella”.

Non era finita.
Passò del tempo.
Fece male ancora per un bel po’, ma sempre meno.

E vennero colline verdi, filari nuovi e vino buono.
Ero viva, nonostante quel male grande. Ora sapevo che poteva tornare, ma anche che non mi avrebbe ucciso, perché non poteva.
Per questo non avevo paura.

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