racconti

Specchi

Una stanza quadrata, non più grande di un salotto di provincia.

Luminosa, però. Con finestre grandi sul soffitto, che guardano il cielo. O almeno, dici cielo perché è in alto, ma quel rettangolo grigio smorto senza profondità potrebbe anche essere la schiena di un cartone, o la pelle polverosa e rasa di un topo gigante.

A entrarci si rimpicciolisce, la stanza. Non davvero, forse. Ma se guardi avanti, in effetti ti sei già mangiato un passo dello spazio, che resta indietro.

E poi vuoto. Non un riferimento per capire dove o da dove. Un attaccapanni, un chiodo sul muro, un pelucco sul pavimento. Niente. Spazio. E basta.

All’inizio tutto opaco. Si va un po’ a destra, un po’ a sinistra, con la sensazione di muoversi, forse senza andare.

Poi dei baluginii.
Veloci tanto che non si può dire se li hai visti con gli occhi o solo con la testa.
Come quella pallotta nera e tonda che sembra un ragno veloce, e poi da vicino, non c’è.
Ma c’è stato?

Che poi a un ragno non ti avvicini più di tanto. C’è, e se non c’è, lo lasci perdere.

Ma quando, a destra, due metri di donna ti guardano fisso, allora sì, ti volti. Ti avvicini.
E quella fissità terrorizzante e sconveniente la vuoi far finire, insieme a un indistinto disagio nello stomaco. Due dita a sfiorarne il contorno e uno scroscio.

Ti tiri indietro di due passi. Difficile dire di quanti, in realtà, nel niente.
Ma da lì puoi vedere bene i milleduecentocinquantatre triangoli di donna. Uno specchio che si rompe, per avvicinare questa cosa all’esperienza.

E adesso sono tante donne alte un metro, o la stessa in piccole parti. E ogni parte viva. Ogni parte che ti guarda. Fissità molteplice, ma sempre indigesta. Pure di più.

Il respiro che preme nel petto riempie lo spazio che diventa assurdamente denso. Un po’ sostiene, un po’ trattiene. Il secondo sguardo va alla porta. Dov’è l’ingresso? E l’uscita? Come si attraversa il niente?

Ed è già scoppiato un altro specchio. Così vicino alla faccia da tagliare la pelle appena sotto un occhio. Sangue. Rosso. Solo una goccia raccolta dall’indice. E se anche l’indice andasse in pezzi?

In un momento sono schegge ovunque. Fruscii lontani di polveri taglienti, crepitii cristallini di pareti che si dividono, crollano, chiudono a distanze inaspettate disegnando percorsi che non portano da nessuna parte.

E in un triangolo aguzzo una coda di gatto, una lacrima, da quel frantumato cemento.
Una scarpa, stringata, da uomo. Una pozzanghera, forbici. E aghi di pino, resina, la scaglia di un drago, pioggia, fango, freddo. Il vento che ti strappa, mille occhi. Bocche dai denti storti che sussurrano incomprensibili oscenità.

Se chiudi gli occhi non li vedi? Ci sono, invece. Come hanno fatto a entrare nella testa? Sono fuori o sono dentro? E quei bisbigli sporchi che ti scivolano addosso e si attaccano alla gola come sanguisughe.

Non si respira, qui dentro. Sembra tutto a tratti piccolo, claustrofobico che non ti muovi. A tratti così lontano, dilatato e grande che la mano sembra irraggiungibile, persa per sempre.

L’unica cosa che non si rompe è la finestra sul soffitto. Ma non ci arrivi. E il cielo piatto sta lì con quello sguardo tonto. L’unico che ti dovrebbe salvare non guarda giù.

Guardami! Mi vedi? Quaggiù! La voce si strozza nella gola. È mai uscita? Piano piano diventa rauca e impotente e il collo si abbassa, su quei piedi distanti. Distanti. Distanti. Portami via.

Un piede si muove.
Gli occhi si spalancano.
Portami via!

Un altro passo.

Non era la testa, a cui chiedere. Chiudi gli occhi, inutili. Via il pensiero.

Portami via.

E uno, due, uno due. Non troppo veloci ma costanti. Dieci piccole dita, in fila come soldati, lo hanno sempre saputo.

Fuori.

Goffe nuvole bianche percorrono strisce di azzurro.
Pantone 2925 C.

Cos’era quel grigio tonto che ho creduto cielo? L’ho messo lì io a impersonarlo?
Forse davvero la schiena di un topo.

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